Il titolista, la figura più giustamente deprecata del modesto giornalismo italiano, ogni tanto partorisce idee di un certo spessore.
In uno sforzo documentale ammirevole, in occasione della Festa della Mamma, Il Grande Flagello ha postato un elenco di tweet del senatore Gasparri nei quali, rispondendo ad altri utenti, il politico di Forza Italia esprime, nella migliore delle ipotesi, valutazioni un po’ avventate sul mestiere della di loro madre.
L’interpretazione iniziale di una simile raccolta è quella che viene in mente subito a chiunque: un parlamentare della Repubblica che apostrofa sconosciuti mostrando senza imbarazzo la pochezza del proprio linguaggio e la propria scarsa educazione con espressioni che evidentemente nessuno stigmatizzerà troppo.
In realtà anche altre cose mi colpiscono: la ripetitività delle offese, sempre uguali e sempre esplose con il tono di chi è contento di stupire l’avversario con la propria selvaggia brillantezza (un tratto senile davvero usuale), e l’utilizzo di una figura retorica, quella della “donna di strada”, che è scomparsa della vita sociale e dal linguaggio del Paese da decenni. Gasparri riesce così a spiegare sé stesso a noi con esattezza.
Resterebbe da capire come sia possibile che gente del genere possa continuare ad essere eletta in Parlamento, ma si tratta di un mistero tanto ampio quanto insondabile.
Perplexity (che ultimamente adoro abbastanza) risponde così alla mia domanda sulle ragioni che hanno portato Adelphi a cambiare il titolo della nuova edizione di “Lamento di Portnoy” di Philip Roth in “Portnoy”.
In conclusione, la scelta di intitolare la nuova edizione semplicemente Portnoy risponde a esigenze di rinnovamento editoriale, maggiore impatto e riconoscibilità, e riflette la volontà di Adelphi di presentare l’opera in una veste più attuale e centrata sulla figura del protagonista, lasciando da parte la parola “lamento” che, pur fedele all’originale, rischiava di suonare datata o riduttiva rispetto alla complessità e vitalità del romanzo
Le prossime scelte di Adelphi per svecchiare la letteratura mondiale saranno:
“Raga è una vita che non ci si vede” di Marcel Proust
“1333 x 2” di Roberto Bolaño
“Poi alla fine te l’ha data?” di Alessandro Manzoni
Stavo per commentare le frasi del Ministro dei Trasporti che esulta su Twitter perché la Lega consentirà a cani e gatti di viaggiare in aereo nel posto accando al nostro e le frasi del Ministro della Cultura (a un passo dalla auspicata laurea) sui rapporti fra cultura, intellettuali e società nell’Italia del 2025. Poi mi sono detto: ma sei scemo?
Il lavoro di questo governo consta di due parti sostanziali. Una quota populista, che delle due è la parte maggiormente rilevante e una quota di realtà che è il fastidioso incombere delle scelte operative da decidere di giorno in giorno.
La quota populista segue uno schema classico e ben rodato: si solletica l’attenzione dei cittadini su temi che si intuisce essere per loro rilevanti e si annunciano misure di governo che vanno in quella direzione. Non è molto importante che si tratti di misure attuabili, non serve nemmeno che siano sostenute da leggi solidamente scritte. L’annuncio, l’intenzione, è più che sufficiente.
Due esempi classici di questo tipo messi in atto dal governo Meloni sono il progetto dei campi di raccolta migranti in Albania e il provvedimento del ministro Salvini sul codice della strada. È interessante anche che l’opposizione si scateni sul progetto Albania sottolineandone i costi, gli insormontabili ostacoli giurisprudenziali e costituzionali, la quantità enorme di denaro speso per spostare su grandi navi pagate da tutti noi piccoli gruppi di persone senza patria. Così come è interessante che per esempio oggi una piccola farisea circolare abbia svuotato completamente il tono rigoroso e orgogliosamente reazionario delle norme propagandate da Salvini sul codice della strada.
Immagino non sfugga che la quota populista di simili provvedimenti viene raggiunta e si esaurisce con l’annuncio della “stretta”, perché quasi sempre di una stretta si tratta, la stretta sui migranti in Italia, la stretta sui tossici al volante. In un simile schema perfino le urla dell’opposizione a sottolineare la vacuità delle norme annunciate fanno parte dello schema: sono utilizzate come ulteriore testimonianza della buona riuscita del provvedimento.
La quota populista è sempre esistita in qualsiasi governo precedente a questo. Con il governo Meloni, un governo con un capitale umano complessivo fra i più scadenti fra quelli che si ricordi, è diventata, forse per necessità, la quota prevalente dell’agire politico mostrato ai cittadini.
La domanda è alla fine sempre la solita: per quanto tempo sarà possibile continuare con questa sceneggiata prima di essere sommersi dai fischi? Le indicazioni al momento sembrano dirci che lo spettacolo è solo all’inizio e che al pubblico pagante continua a piaciucchiare non poco.
“Cosa pensa di Trump vestito da Papa?”
“Noi non pensiamo niente dei nostri alleati. Ci sono anche leader di altri Paesi, dalla Cina all’Africa, che vestono in modi che non condividiamo”.
Le uscite pubbliche del Ministro Lollobrigida, molto frequenti e tutte quasi sempre di alto livello, dicono una cosa interessante che magari a qualcuno è sfuggita. Se chiedessimo ad una AI avanzata o a un team di autori comici di grande e riconosciuto talento di produrre battute per il Ministro mai si avvicinerebbero ai livelli che Lollobrigida produce con naturalezza da solo e in tempo reale. Quando il talento è naturale nulla sarà in grado di fermarlo, niente saprà sostituirlo.
La parola drone, che l’inglese ha mutuato da una più antica radice germanica, indica il fuco, il maschio dell’ape. Il pigro e nullafacente fecondatore della regina che per il resto passa la vita a far niente.
Drone è anche anche un termine onomatopeico, il cui suono ricorda il ronzio fastidioso dell’insetto.
Benché il termine identifichi i cosiddetti “aerei senza pilota” fin dalla metà del secolo scorso, il suo utilizzo è diventato molto frequente nell’ultimo decennio, quando la loro versione commerciale, in forma di aggeggi in plastica per l’intrattenimento tecnologico, ne ha reso comune l’utilizzo e la conoscenza: ma lo senti anche tu questo ronzio? Ecco, guarda, vedi quel puntino scuro in cielo? È un drone.
Il drone più economico in vendita ora su Amazon costa 21 euro. Su AliExpress 4 euro e 20 centesimi.
I tentacoli della tecnologia hanno reso i droni oggetti multipotenti: concimano i campi, creano spettacolari giochi di luce notturni, riprendono dall’alto gli eventi sportivi, consegnano merci, documentano le nostre vacanze. Il loro ronzio è un segno dei tempi. Eppure nulla di tutto questo ha impedito ai droni di diventare, almeno per me e ben prima di tutto questo, il simbolo dei nuovi cerimoniali della guerra.
Portano le bombe i droni, inseguono i loro bersagli fin dentro le case o nelle loro automobili, sanciscono il confronto impari, che è quello di tutte le guerre, fra il proiettile ed il suo bersaglio, pur dentro una rilevante differenza: questa volta il proiettile ha una telecamera accesa e noi, che non siamo né proiettile né bersaglio, potremo seguire lo spettacolo dal divano di casa nostra. Il rito nauseante della morte di qualcuno, ucciso da qualcun altro a centinaia o migliaia di chilometri di distanza, seduto, l’assassino, su un divano esattamente come il nostro. Ecco cosa sono soprattutto i droni oggi per me: la tecnologia, la mia amata tecnologia, che si fa orrore.
Nessuno spettacolo luminoso organizzato sincronizzando nella notte migliaia di macchinette nel cielo di una città potrà mai equiparare il ronzio del singolo drone che sopra il soldato ferito dentro una trincea fangosa da qualche parte in Ucraina lascia cadere la bomba che lo ucciderà. Lui la vedrà staccarsi, noi la osserveremo con lui e osserveremo, subito dopo la piccola esplosione, quel corpo senza vita.
Nessuna splendida ripresa dal drone del grande sciatore in velocissimo equilibrio sulla Streif di Kitzbühel potrà mai competere con l’orrore cinematografico dell’ultima immagine inviata dal drone mentre insegue e poi penetra, un istante prima di esplodere, dentro l’auto di passaggio che è diventata il suo bersaglio, lasciando allo spettatore un groviglio di lamiere e un ultimo fermo immagine di puntini grigi.
È ormai impossibile scindere l’orrore del maschio dell’ape che distrugge il mondo da noi stessi. Siamo noi che distruggiamo il mondo nel momento in cui osserviamo quelle immagini.
Già negli ultimi decenni la cartografia per immagini (fotografiche, video e satellitari) delle enormi distruzioni e della cattiveria degli uomini era diventata precisa al millimetro; documenti terribili, spesso distribuiti dai media nella speranza che le testimonianze della nostra crudeltà di esseri poco umani ci aprissero gli occhi e ci facessero rinsavire.
I droni hanno reso documentabile e a basso costo anche il passo che mancava, quello che precede la morte e la distruzione raccontata dai reporter: hanno aggiunto informazioni, rendendo completa la sequenza temporale. La macchina è il testimone e l’esecutore, il testimone disumano che, mentre uccide, allevia – se mai costui le avesse avute – le angosce dell’assassino in carne e ossa, dietro allo schermo del suo videogioco.
Chi lo avrebbe detto: i videogiochi, che per anni i cretini hanno indicato come la causa dei nostri istinti violenti, sono diventati l’esatto contrario: una piccola risibile panacea. Il diaframma dietro il quale nascondere la nostra propensione all’odio. Guarda che non è la vita, è un videogioco!
Il colpo di grazia al soldato morente cliccando il tasto di un mouse, come una responsabilità attenuata, senza il sangue intorno, senza l’odore e i suoni della morte a ricordarci chi siamo.
Tutto si trasforma in gioco nell’era dei droni, fino a quando non saremo noi il bersaglio e qualcun altro, seduto su un divano senza incubi, il nostro proiettile.
Il fantapapa e più in generale l’attenzione piena di pettegolezzi che i media italiani stanno dedicando al conclave e all’elezione del nuovo Papa sono un segno dei tempi. L’agenda mediatica è gestita da soggetti la cui ricetta è ormai la stessa per tutti indistintamente: 50% di propaganda ai propri amici, 50% di cazzate che si immagina potranno incuriosire i propri residui lettori. Se il ritorno economico del primo 50% è noto (ed è un salvavita perché consentirà di mantenere in vita almeno per un po’ i giornali anche quando non avranno più lettori), il secondo resta incerto.
Subisco le mie piccole infatuazioni letterarie. L’ultima in ordine di tempo riguarda Ernesto Sabato, scrittore argentino gigantesco del quale non sapevo nulla fino a qualche mese fa. Sabato ha avuto una vita lunga e piena di cose differenti durante la quale ha scritto molto poco. Tre romanzi in tutto e qualche saggio. I tre romanzi sono tutti collegati fra loro in una serie di rimandi che li saldano uno all’altro; i tre libri ruotano intorno al secondo, scritto nel 1961, che si intitola “Sopra eroi e tombe“. “Eroi e tombe” come Sabato amichevolmente chiamava il suo testo, è banalmente un enorme capolavoro. Uno dei grandi libri della letteratura mondiale. Lo è da sempre e io come al solito non lo sapevo. Mentre leggevo Sabato pensavo: ma quanti altri Sabato esistono là fuori che io non ho letto e che mai leggerò?
Ho scritto spesso di cimiteri e del mondo parallelo che contengono. In Bassa risoluzione descrissi una giornata di tanti anni fa a Pere-Lachaise seduto sotto un albero a pochi passi dalla tomba di Marcel Proust. Mi era venuta voglia di osservare il pellegrinaggio dei suoi ammiratori che arrivano da tutto il mondo al cospetto di quella anonima lapide scura: la ricordo ancora oggi come una giornata per me molto importante.
Sono venuto in bici, dopo essere sopravvissuto alle pericolose intersezioni di auto di Place de la Bastille (i parigini guidano come pazzi, rispettano i ciclisti come i milanesi e suonano il clacson come i napoletani) e aver pedalato per tutta Rue de la Roquette, la lunga strada dritta in leggera salita che porta al cimitero più famoso di Francia. Delle mie fissazioni per i cimiteri non vi dirò, sappiate solo che secondo me, dentro alcuni di quei luoghi, ma forse in tutti, va quotidianamente in onda un riassunto accurato della nostra vita: nel silenzio attorno a quelle lapidi un’invisibile radio privata trasmette il senso complessivo delle nostre esistenze. In ogni caso sono seduto qui sull’erba, sotto un bell’albero secolare, e tengo d’occhio alla mia destra la tomba di Marcel Proust. Che è una sepoltura senza sfarzi, un parallelepipedo basso e triste in marmo nero, con sopra tre piantine striminzite. E infatti i turisti cimiteriali passano lì accanto con la loro mappa in mano (un pieghevole che distribuiscono all’ingresso con la lista di un centinaio di celebrità sepolte da quelle parti) e proseguono senza vederla. Poi tornano indietro, guardano meglio e dicono: “Ah ecco è questa, non l’avevo notata”. Solo che una volta giunti lì di fronte non sanno più cosa fare. Qualcuno si fa fotografare accanto alla lapide, qualcun altro fa un segno della croce, alcuni scelgono un sassolino dal selciato e lo aggiungono agli altri disposti in fila sul marmo nero. Le brevi liturgie del ricordo.
Mentre ogni giovane americano sceso a Parigi viene da queste parti in pellegrinaggio sulla tomba di Jim Morrison, che infatti è l’unica transennata di tutto il cimitero (hanno transennato e ricoperto con una stuoia di vimini anche un albero lì nei pressi, perché i ragazzi incidevano la corteccia e ci attaccavano sopra i chewing gum) in questa mattina di primavera, davanti alla lapide di Proust saranno arrivati in dieci, compresa una signora giapponese che dopo un lungo girovagare è venuta tutta timida verso di me sotto l’albero chiedendo:”Proust?”. Le ho indicato il nome inciso sul marmo scuro e lei ha iniziato a ringraziarmi con ampi inchini.
Perché racconto tutto questo? Il fatto è che noi, a un certo punto, moriamo.
Le lapidi di Abelardo ed Eloisa, la tomba di Yves Montand o di Samuel Beckett, quella di Chopin o di Petrucciani, qui a Pere-Lachaise, sono un un tassello supplementare rispetto alle opere che hanno reso alcune persone adatte al nostro ricordo. Le modalità con cui un simile ricordo si esercita raccontano la nostra relazione con loro. Un rapporto personale, legato alla scrittura o alla musica, al cinema o al teatro, che spesso chiede un tributo tangibile in più Una relazione che, a un certo punto, domanda un gesto a bassa risoluzione.
Cosa fanno le persone che hanno amato la Recherce di fronte alla tomba del grande scrittore?
Nulla. Se ne stanno ferme, consumano la parte dolente e materiale del loro legame con l’artista nell’unica maniera possibile. Sono salite su un treno o un aereo e hanno camminato fino al luogo dove il loro eroe è sepolto; ora se ne stanno lì davanti, immobili ed emozionati.
A dispetto delle apparenze si tratta di una forma di vitalità molto grande.
E sempre a proposito delle mie usuali fissazioni il mio libro sulla vecchiaia termina così:
Hugo pubblica I miserabili nel 1862, quando di anni ne ha 60. il grandioso romanzo termina con la descrizione di un angolo nascosto del cimitero di Pere-Lachaise a Parigi dove si trova la tomba di Jean Valjean, il protagonista del libro. In un luogo deserto, vicino a un vecchio muro, sotto un grande tasso – scrive Hugo – c’è una lapide senza nome. A nessuno verrà in mente di andarla a cercare perché non è vicina ad alcun sentiero e l’erba lì attorno cresce folta e bagna i piedi. Al massimo, quando c’è un po’ di sole, andranno a visitarla le lucertole. Sulla tomba qualcuno ha scritto a matita i quattro versi di una poesia che ormai il tempo avrà cancellato:
Il dort. Quoique le sort fut pour lui bien étrange,
Il vivait. Il mourut quand il n’eut plus son ange.
La choise simplement d’elle-même arriva.
Comme la nuit se fait lorsque le jour s’en va.Nel più celebre cimitero di Parigi non esiste alcuna tomba come quella descritta nell’ultima pagine de I miserabili. Nonostante questo sono sicuro che un certo numero di persone, non so se alcune o moltissime, avranno provato almeno una volta a rintracciare quel vecchio muro, quell’albero e quella lapide senza nome. E dopo averci provato quel mancato ritrovamento non sarà sembrato loro nemmeno troppo strano: i luoghi veri non sono segnati su nessuna carta. Questo libro in fondo – me ne accorgo solo ora – si è occupato soprattutto di questi.
Molti anni prima, senza che io lo sapessi, Ernesto Sabato indagava i legami fra arte e letteratura ne L’angelo dell’abisso (il terzo volume della trilogia di cui vi dicevo) e a un certo punto scrive:
In un giorno d’autunno del 1962 con l’ansietà di un adolescente, andavo cercando il cantuccio in cui aveva “vissuto” Madame Bovary. Che un ragazzo cerchi i luoghi in cui patì un personaggio di romanzo è già sorprendente: però che lo faccia un romanziere, qualcuno che sa fino a che punto quegli esseri non siano esistiti se non nell’animo del loro creatore dimostra che l’arte è più potente della creduta realtà”
Con il senno di poi non è che la liberazione stia procedendo alla grande.